lunedì 6 febbraio 2012

Ibra, San Siro non è il tuo oratorio


Oratorio. Pomeriggio di febbraio. Aria frizzante ma tira vento. Campo d’erba spelacchiata. Un pallone, una decina di ragazzini che corrono. Un signore sulla quarantina, con una ventina di chili in più da portare a spasso, guarda sonnacchioso col fischietto in bocca. Stop, questo è fallo. C’è un capannello di ragazzini che si accalcano. Uno arriva da lontano. E’ grande, più grande di tutti gli altri. E’ alto. Più alto di tutti gli altri. E’ forte. Più forte di tutti gli altri. E lo sa. Dà un’occhiata in giro. L’arbitro improvvisato sta guardando altrove. Allunga la manona, parte la sberla. Il ragazzino perde gli occhiali. “Chi è stato?”, urla l’arbitro. “Chi è stato”. E chi lo sa. Nessuno ha il coraggio di additarlo, chissà che dopo, lontano dagli occhi ammonitori del parroco, non ci scappi una bella “paliata”. “Io non ho fatto niente”. La sua voce è alta, il tono assertorio. L’arbitro controlla, fa fare la pace e se ne va. Tornando al centro del campo.
Questa è solo una storia. Da oratorio. Che ognuno di noi, almeno una volta, ha vissuto durante le partite a perdifiato dei tempi migliori. Ma ieri, davanti agli obiettivi di mezzo mondo, quella storia è tornata. Lo stadio diSan Siro è diventato un oratorio. Ma stavolta il finale è stato diverso. Stavolta il ragazzaccio non l’ha fatta franca. Il rosso del pallore sul volto del ragazzino dopo lo schiaffone, è traslato sul cartellino dell’arbitro. Fuori. Il pallone adesso non puoi più portarlo a casa. E anche se sei il più forte, il campo ti ha dato una lezione cruda, atroce, che magari neppure stavolta imparerai.
C’è una sola parola che chiude il cerchio di questi mondi paralleli. Ibra. Altro che supremacy. Ibra bulletto da oratorio. C’è un’istantanea, un fotogramma che spiega la puerilità del gesto. Ibra che guarda fisso negli occhi De Sanctis, ma con la mano colpisce il volto di Aronica. Come un bambino viziato che perdere non sa. Un gesto “no look”, in perfetto stile Ibra. Che anche stavolta stava per farla franca, non fosse stato per lo sguardo attento di un guardalinee coscienzioso, e il coraggio, questo sì, di Rocchi che non ha avuto paura di sbattere il rosso in faccia al ragazzo di Malmoe. Diciamoci la verità. Le favole non esistono. I giocatori, quelli forti per davvero, hanno soldi, privilegi, fama. Ma anche un corredo di responsabilità e pressioni che nessuno di noi sopporterebbe senza esplodere. Al di là del facile qualunquismo, fanno una vita in cui la privacy è un optional e in cui ogni minima sbandata diventa un caso mediatico. Ma ce ne sono alcuni che hanno imparato a gestirla, questa pressione. Ce ne sono alcuni che, in campo, alla classe e al talento abbinano comportamenti eticamente corretti. Perché sanno che magari a casa c’è un ragazzino che quando tira calci ad un pallone indossa la sua maglia e si fa chiamare come lui. Perché se fa un gol su punizione da trenta metri,  c’è un ragazzino che ci prova e riprova davanti al garage di casa fino a quando non becca il vetro del vicino. Perché se esulta con le mani alle orecchie, ci sono cento, mille ragazzini che quando bucano il compagno di turno nelle ore di ginnastica esulteranno come lui. Solo questi sanno essere Campioni, con la C maiuscola. Ad ibra, scritto con la lettera piccola, probabilmente questa consapevolezza manca ancora. Ma San Siro non è l’oratorio. E stavolta, purtroppo per lui, anche se è il più forte, non l’ha passata liscia. 
Antonio Del Vecchio

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