martedì 13 settembre 2011

Un viaggio verso un sogno nel teatro dei campioni

Credo di essere malato. Rammento lenti giorni d’agosto, in riva al mare, a leggere il libro di turno sorseggiando granita al limone
addolcita con tassoni, mentre il bagnante non campano di turno chiedeva in prestito il mio quotidiano rosa, confondendolo con la
Gazzetta dello sport; rammento le sue mediatrici risposte del tipo “il Sole che?”.
Mi viene in mente il goal di Guana al Manuzzi di Cesena, a quel sobrio tifoso che annullava ogni esultanza con un arrogante dito medio in primo piano, da tutti condannato, da tutti idolatrato.
Credo di essere malato, per la mia temperatura corporea aumentata prima di una sfida del Napoli, per la pelle d’oca ad una finta del Pocho, per un tremore irragionevole che sia Cesena o Milan.
E ad ogni modo, Manchester potrebbe anche essere una ripetizione del trofeo Gamper, Napoli se ne frega.
“Alè, alè, oh oh, alè, alè, oh, oh. Sono pazzo di te, innamorato di te e mai ti lascerò”. Ascolto un coro di una fede calcistica che mancava da anni, di un popolo che chiede aiuto, che cerca punti di riferimento, che ha voglia di riscatto, che chiede spazio anche mediatico, che nasconde in un coro un richiamo fatto di speranza.
Ci sono società che comprano le emozioni con galloni di petrolio, vestiti giacca e cravatta per rendere credibile il criptico trucco colonizzatore, iniettandosi nella cultura anglosassone come se fossero virus. Qui l’ingresso è dalla porta principale, da Castelvolturno, da stadi in terreno e palloni ovali, da sudore e calci di tacchetti consumati, da maglie senza nomi alle spalle.
Il calcio da queste parti è una filosofia. Questa è una delle pochissime metropoli al mondo che non è calcisticamente divisa. Sarebbe improponibile. Siamo uniti in un tunnel a cantare
semplici inni, con centinaia di voci di ragazzini, donne, uomini, di un popolo che cerca riscatto, che si indebita per tifare, per avere qualcosa in cui credere; siamo uniti sulle nostre poltrone tifando per la stessa squadra, datore e dipendente, poliziotto e ladro, marito e suocera, tradito e amante, padre e figlia. Siamo tornati uniti, cantando ciò che la storia scritta dai Savoia ha cercato di cancellare.
Il calcio non è più un semplice sport, non qui.
Ma la nostra forza deve restare questa, presenti ma regali, ordinati come la Partenope greca, ma sudamericani come il suo cuore disperato e danzante; un pubblico rumoroso, ma pulito come le sue strade, un pubblico malato, malato come me.
Domenico Serra

4 commenti:

AntonioMarano ha detto...

Domenico, se hai un vaccino o una cura per questa malattia, tienila lontano dal sangue partenopeo.
Mi piace il tuo pezzo e appoggio le tante verità contenute. Soprattutto come vorrei che il calcio fosse solo sport, momento di socializzazione e ridimensionamento a piccolo sfottò per lo sfidato e vinto, durante l'intera stagione, e non pretesto per biechi sfoghi.
Come vedi sono un malato sognatore! ;-))) Sono proprio perso!!!

Unknown ha detto...

Grande Antonio.

Domenico Serra ha detto...

Le mie parole simboleggiano il pensiero di ogni tifoso partenopeo... Grazie delle belle parole. Non c'è cura...

abrongius ha detto...

Complimenti per il pezzo quel coro è bellissimo ieri l'ho ascoltato una decina di volte è l'emblema del nostro tifo!!!