Gli è rimasto qualche desiderio. “Mi piacerebbe bere un caffettino”.
Ottiene una brodaglia nerastra allungata con l’acqua. Un fondo in cui
leggere e diluire passato e presente. Il campo adesso è un divano, la
mobilità un’illusione e l’orizzonte un muro di nebbia. “Ho tumori al
cervello, al rene e al polmone. Ho un glaucoma, sono cieco, mi hanno
operato decine di volte e dovrei essere già morto da anni. Nel 2005 i
medici mi diedero tre mesi di vita. E’ stato il calcio. Ne sono certo.
Con le sue anfetamine in endovena da assumere prima della partita e i
ritrovati sperimentali che ci facevano colare dalle labbra una bava
verde e stare in piedi, ipereccitati, per tre giorni. Ci sentivamo
onnipotenti. Stiamo cadendo come mosche”.
Ieri, abbattuto dalla leucemia se n’è andato anche Sergio Buso.
Saltava da portiere nella Serie A degli anni 70. Quella raccontata da
Carlo Petrini, centravanti di Genoa, Milan, Roma, Bologna e di altre
stazioni passeggere: “Da mercenario che pensava solo a drogarsi,
scopare, incassare assegni e alterare risultati”. Vinse, perse, barò.
Scrisse libri su doping e calcioscommesse. Fece nomi e cognomi. Rimase
solo. Il Carlo Petrini di ieri non c’è più. Il corpo che un tempo gli
serviva per conquistare amori di contrabbando e tribune esigenti tra San
Siro e il Paradiso, è un quotidiano inferno che gli presenta conti con
gli interessi e cambiali da scontare.
A 63 anni, con il vento che scuote Lucca e non lo accarezza più, non
c’è Natale o Epifania possibile. A metà conversazione, mentre lamenta
l’abbandono di chi un tempo gli fu amico: “Ciccio Cordova, Morini, non
mi chiama più nessuno”, un segno. Squilla il telefono. La voce di Franco
Baldini. Il dirigente della Roma. Il nemico di Luciano Moggi. Petrini
gli parla: “Ho fatto molta chemio. Sto cercando di superare il male. Io
spero, Franco. Spero ancora”. Poi lacrima. In silenzio. Rumore di
rimpianto. E di irreversibile.
Petrini, come si racconterebbe a chi non la conosce?
Un presuntuoso. Un coglione. Uno che credeva di essere un semidio e
morirà come un disgraziato. Ero bello, forte, ricco, invidiato. Avevo
tutto e ora non ho niente.
Perché?
I miei errori iniziarono a metà dei ’60, al Genoa. Siringhe. Sostanze.
La chiamavano la bumba. Avevo 20 anni. Non smisi più. Il nostro
allenatore, Giorgio Ghezzi, ex portiere dell’Inter, ci faceva fare
strane punture prima della gara. Un liquido rossastro. Se vincevamo, si
continuava. Altrimenti, nuovo preparato.
Cosa c’era dentro?
Mai saputo. L’anno dopo, disputammo a Bergamo lo spareggio per non
retrocedere in C. Il tecnico Campatelli scelse cinque di noi come cavie.
Stesso intruglio per tutti. Eravamo indemoniati. La punta, Petroni,
sembrava Pelé. Vincemmo 2-0 e, in premio, ebbi il trasferimento al
Milan.
Perché non vi ribellavate?
Venivamo da famiglie poverissime. Mio padre era morto a 40 anni, di
Tetano. Rifiutare le punture, le pastiglie di Micoren o le terapie
selvagge ai raggi X, significava essere eliminati. Fuori dal circo.
Indietro, in cantina, senza ragazze o macchine di lusso. Nei nostri
miserabili tinelli, con la puzza di aringa che mia madre metteva in
tavola un giorno sì e l’altro anche.
Quindi continuò ad assumere sostanze proibite?
Ovunque andassi. A Roma il massaggiatore ce lo diceva ridendo: “A ragà,
forza, fa parte der contratto”. A Milano, dove mi allenava Rocco, feci
invece i raggi Roengten per guarire da uno strappo muscolare. Non so se
Nereo sapesse. Con me aveva un rapporto particolare: “Testa de casso, se
avessi il cervello saresti un campiòn”.
Di radiazioni Roengten, secondo la famiglia, morì anche Bruno Beatrice.
Fu mio compagno a Cesena, Bruno. Se ne andò a 39 anni, a causa di una
rara forma di leucemia, tra agonie e sofferenze atroci. Come tanti,
troppi altri.
Si muore di pallone?
Hanno sperimentato su di noi. Non ci curavano, ci uccidevano. Vorrei
sapere con quali ausili gli eroi contemporanei disputano 70 incontri
l’anno.
Lei insinua.
Affermo, ma non ho le prove. Nonostante l’impegno di Guariniello, hanno
nascosto tutto. Ai nostri tempi le punture le faceva chiunque e un
minuto dopo, sentivi un mostro che ti sollevava e ti faceva volare.
Chi ha nascosto tutto?
Allenatori, calciatori, presidenti. Il sistema che ancora foraggia con
le elemosine quelli capaci di non tradire. Gente che ogni mattina si
alza con la paura e che continua a tacere anche se oggi, grazie agli
‘aiutini’ farmacologici o è una lapide con un’incisione o recita da
vegetale.
Di chi parla Petrini?
Di quel piccolo uomo di Sandro Mazzola, che ha smesso di parlare al
fratello Ferruccio. Di Picchio De Sisti, che nega l’evidenza nonostante
la malattia. O del commovente Stefano Borgonovo. Uno che sta molto male,
aggredito dalla Sla e che continua a sostenere che il pallone non
c’entri nulla. Se non mi facesse piangere, verrebbe da ridere.
E invece?
Sono triste. Vedendo come sei e come potresti essere, persino peggio di
ora, ti vengono mille domande senza risposte. Parliamo di gente che non
ha respirato amianto o fumi in miniera. Ha inseguito una sfera e muore
nell’indifferenza in una guerra non dichiarata. Non sono un dottore, ma
non può non esserci una relazione tra le mie malattie e quelle di altri
calciatori.
Prova rancore?
A volte li sogno. Con i loro sorrisi falsi. Le loro bugie. Vorrei cancellarli. Non ci riesco.
Lei fu tra i protagonisti del primo calcioscommesse, quello della primavera 1980.
E oggi succede la stessa cosa. Partite combinate, risultati compromessi,
soldi gestiti dalla camorra, dalla mafia, dalla ‘ndrangheta.
La ‘ndrangheta forse uccise Bergamini. Lei ci scrisse un libro.
Che è servito per riaprire l’inchiesta, dopo più di 20 anni. Bergamini
era l’ingenuo, il ragazzo pulito, smarrito in una vicenda più grande di
lui. La scoprì, provò a uscirne e lo fecero fuori. Dentro la sua
squadra, il Cosenza, c’era chi organizzava traffici di droga. Bergamini
era l’anello debole e fu suicidato.
Nel suo libro lei ha intervistato anche il compagno di stanza di
Bergamini, Michele Padovano, appena condannato per traffico di
stupefacenti. Il padre del calciatore Mark Iuliano lo ha chiamato in
causa.
La sua condanna non mi stupisce. A fine intervista, Padovano si alzò di
scatto, mi mandò a fare in culo e provò a distruggere la registrazione.
Sono sicuro che lui sappia tutto della morte di Denis. Tutto. Bergamini
ne subiva l’ascendente. Del padre di Iuliano non so cosa dire, su Mark
si raccontavano tante cose, non solo sulla sua presunta
tossicodipendenza. Si raccontava che mandasse baci alla panchina rivolti
a Montero, un’ipotetica ‘prova’ della sua omosessualità.
Dica la verità. Lei ce l’ha con la Juve, fin dal 1980.
Al contrario. La salvai. Nell’ 80 giocavo con il Bologna. Bettega chiamò
a casa di Savoldi e ci propose l’accordo. Tutto lo spogliatoio del
Bologna, tranne Sali e Castronaro, scommise 50 milioni sul pareggio.
Prima della partita, nel sottopassaggio, chiesi a Trapattoni e Causio di
rispettare i patti: “Stai tranquillo, Pedro, calmati”, mi risposero.
Tutta la Juve sapeva?
Certo. Rivedetevi le immagini, sono su Youtube. Finì 1-1. Errore del
nostro portiere, Zinetti e autogol di Brio. Bettega ce lo diceva,
durante la partita: “State calmi, vi faccio pareggiare io”. La gente ci
fischiava e tirava le palle di neve. Una farsa. Quando lo scandalo
esplose, Boniperti e Chiusano mi dissero di scovare Cruciani e
convincerlo a non testimoniare contro la Juve: se li avessi aiutati,
loro avrebbero aiutato me. Fui di parola, incontrai Cruciani al cancello
5 di San Siro, ero mascherato. Una scena surreale. Lui accettò e la
Juve si salvò dalla retrocessione. Ma alla fine pagai soltanto io.
Le è rimasta la possibilità di raccontare.
Neanche quella. Ho dato fastidio a gente potente. Mi hanno minacciato di
morte e poi coperto con gli insulti. Per i Savoldi e i Dossena ero un
bugiardo, per Rivera un pornografo. Se l’era presa perché lo descrivevo
per quello che era, una fighetta. I miserabili sono loro. Mi impedirono
di andare persino a parlare nelle scuole. Zitto dovevo stare, ma non ci
sono riusciti.
E la scrittura?
Mi è rimasta solo quella. Il nuovo libro, Lucianone da Monticiano, è
ancora su Moggi. Il mio compaesano. Uno che pur squalificato continua a
ricattare e a fare il mercato di mezza Serie A. Ma non sarà l’ultimo.
Perché?
Mi dedicherò a ricordare mio figlio Diego. Morì a 19 anni di tumore,
mentre chiedeva di vedermi e io ero in Francia, in fuga dai creditori.
Non me lo sono mai perdonato. Gli farò un regalo. Proverò a sentirmi
vivo. Sono distrutto e sofferente, ma non mollo. Vivere, ancora, mi
piace.
Ci sarà tempo?
Non è detto. Penso sempre al giorno in cui ci sarà giustizia. Aspetto ma non viene mai.
di Malcom Pagani e Andrea Scanzi
da Il Fatto Quotidiano del 28 dicembre 2011
2 commenti:
La colpa è sempre la nostra, perchè non solo portiamo i nostri soldi e il nostro tempo a questa gente, sapendo da sempre queste cose, ma quello più grave è che vorremmo un nostro figlio calciatore. Il nostro sogno!
Irrimediabilmente persi!
Potranno venire tutte le Moggiopoli o le Sputtanopoli che vogliamo, questi non cambiano perchè gl'interessi sono troppo alti e ci sono troppi collusi.
La speranza è nei nostri cuori, speriamo che batta per sempre, per il bene nostro e delle nostre passioni.
speriamo Antonio
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